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INTERVISTE
ENRICO PALANDRI
DA VENEZIA A LONDRA (E RITORNO) di Riccardo Petito in "Il Gazzettino", n. 174, 25 luglio 2004, p. II.
Lo scrittore Enrico Palandri si può considerare un “veneziano di ritorno". Nato a Venezia nel 1956, dopo i continui trasferimenti della famiglia al seguito del padre, militare di carriera, e la parentesi di un anno trascorso in Laguna per conseguire il diploma di maturità, ha frequentato l'università di Bologna dove si è iscritto al Dams, per poi vivere a Milano, Roma e Londra, dove insegna all'University College e dirige il Centre for Italian Studies. Durante gli anni particolarmente vivaci del Dams ha conosciuto personaggi quali Gianni Celati, Andrea Pazienza, Pier Vittorio Tondelli e Freak Antoni.
La sua fortunata attività editoriale è iniziata nel 1979 con “Boccalone” (L'Erba Voglio, poi Feltrinelli e Bompiani) seguito a distanza da “Le pietre e il sale” (1986, Garzanti), “La via del ritorno” (1990), “Allegro fantastico” (1993) e “Le colpevoli ambiguità di Herbert Markus” (1997) per Bompiani, “Angela prende il volo” (2000) e “L'altra sera” (2003) per Feltrinelli. Parallela risulta l'attività giornalistica: ha collaborato con numerosi giornali, negli ultimi tempi l'Unità, e con programmi radiofonici di Rai3 e Bbc. Dopo una parentesi nel 2001 (ho approfittato dell'anno sabbatico per far nascere la terza figlia nella mia città natale”) è ora tornato a Venezia per un incarico triennale di insegnamento presso l'università Ca' Foscari. Lo abbiamo incontrato in occasione della manifestazione “Ad Alta Voce”, dove ha letto un suo testo presso la Scuola delll'Angelo Custode in campo Santi Apostoli, ospite dell'attuale sede dei luterani tedeschi.
Professor Palandri, cos'è per lei Venezia?
«Sicuramente il posto più bello del mondo, una città dal ritmo unico e particolare. L'ho scelta per farci crescere i miei tre figli. Io sto molto bene anche a Londra, ma Venezia ha la mia misura, è perfetta per concentrarsi e scrivere. Il suo tratto più forte e distintivo è quello di essere un'isola, il non far parte del grande muoversi che oggi è ovunque. Una cosa buffa, che mi fa pensare di non essere mai andato via, è che in molti mi salutano scambiandomi per uno dei miei numerosi fratelli!»
Nella sua produzione narrativa la “venezianità” d'origine non costituisce però un tratto distintivo
«Infatti, i miei libri difficilmente possono essere letti prescindendo dallo scenario “in movimento”. “La via del ritorno”, il più tradotto e forse il più fortunato, credo parli di più a chi ha vissuto rapporti umanamente importanti con persone di altri paesi, di lingue madri diverse dalla propria. È un libro sulla rinuncia della propria identità a favore di una comprensione. Se fossi sempre vissuto a Venezia difficilmente avrei trattato queste tematiche».
Come giudica la sua esperienza di insegnamento?
«L'incontro con gli studenti è fondamentale. A chi lavora molto scrivendo, che è un po' come parlare tra sé, dovrebbe essere prescritto come antidoto. Essere costretti a chiarirsi, a comunicare, per non incartarsi nel proprio monologo. I computer non sbadigliano, gli studenti sì!».
Nel '77 lei ha lavorato anche per l'emmittente radiofonica bolognese Radio Alice, di recente celebrata nel fortunato film “Lavorare con lentezza” di Guido Chiesa, con una trasmissione dedicata alla poesia. Come giudica il rinato interesse per quel periodo caratterizzato dal movimento studentesco?
«Non ho nostalgia. La vera sfida, allora come oggi, è quella di essere all'altezza del proprio tempo. Il movimento del 77, al quale ho attivamente partecipato, ha discusso problemi importanti che sono rimasti tali per un certo periodo dopo. Oggi non mi pare sia molto attuale, ma è anche vero che non ci sono state altre espressioni forti di alterità alla social-democrazia, e quindi c'è forse nostalgia per quella rottura. Ma sono altri i contenuti del futuro. In quegli anni ho conosciuto persone assai importanti per la mia formazione, come Gianni Celati e soprattutto Elsa Morante, che mi è stata presentata a Roma da Goffredo Fofi».
Nel '77 lei ha lavorato anche per l'emmittente radiofonica bolognese Radio Alice, di recente celebrata nel fortunato film “Lavorare con lentezza” di Guido Chiesa, con una trasmissione dedicata alla poesia. Come giudica il rinato interesse per quel periodo caratterizzato dal movimento studentesco?
«Non ho nostalgia. La vera sfida, allora come oggi, è quella di essere all'altezza del proprio tempo. Il movimento del 77, al quale ho attivamente partecipato, ha discusso problemi importanti che sono rimasti tali per un certo periodo dopo. Oggi non mi pare sia molto attuale, ma è anche vero che non ci sono state altre espressioni forti di alterità alla social-democrazia, e quindi c'è forse nostalgia per quella rottura. Ma sono altri i contenuti del futuro. In quegli anni ho conosciuto persone assai importanti per la mia formazione, come Gianni Celati e soprattutto Elsa Morante, che mi è stata presentata a Roma da Goffredo Fofi».
Lei viene spesso identificato come l'autore di “Boccalone”. Lo straordinario successo ottenuto dal libro, confermato dalle innumerevoli ristampe, è stato anche scomodo?
«Il mio percorso è mutato nel tempo, mi sono posto problemi diversi, credo di aver scritto libri migliori del primo. Ci ho messo una decina d'anni per scrollarmi di dosso “Boccalone”, anche per il suo diretto collegamento con gli anni Settanta. Alcuni lettori hanno continuato a leggere attraverso quegli anni e quel testo anche i miei lavori successivi. Credo che sia importante ripensare a quel periodo come ha fatto Guido Chiesa », e quando mi chiedono di parlarne per via di “Boccalone” non mi tiro indietro. Ma già dal mio secondo libro, “Le pietre e il sale”, ho scritto di altre cose. Anche se, naturalmente, c'è sempre storia e società e non la luna nei miei libri, e mi pare di aver guardato avanti, di essermi posto problemi nuovi».
Sta per uscire un suo saggio su Pier Vittorio Tondelli, scrittore prematuramente scomparso che si può definire già un classico della narrativa italiana del secondo Novecento. Come è nata l'idea?
«Su Pier Vittorio Tondelli, che ho conosciuto bene e con il quale ho lavorato in più occasioni, sono già usciti diversi lavori: io cerco di raccontare attraverso lui la generazione. Tuttora non so se sia stata una buona idea, ma alcuni libri recenti che considero fuorvianti sulla sua figura mi hanno convinto».
Assieme al regista Marco Bellocchio ha scritto il soggetto del famoso film “Diavolo in corpo”, uscito nelle sale nel 1985. Come mai non ha più ripetuto l'esperienza cinematografica?
«”Diavolo in corpo” non è il film di Bellocchio che amo di più, potrei anche dire che è stata un'esperienza importante per convincermi a lasciar perdere il cinema. Uno scrittore infatti, controlla anche la minima virgola di un testo; partecipare ad una scrittura cinematografica è tutt'altra cosa, il film esce dalle tue mani per finire in altre con diverse preoccupazioni, fra cui capire dove va il mercato, cosa che io non ho mai inseguito».
Riccardo Petito
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